Andreja Holsedl è una psicologa lauerata, esperta nell'ambito della psicologia dello sport. Attraverso consulenze individuali, seminari, lezioni, vari programmi e progetti coopera con atleti di tutti i livelli e discipline, allenatori, genitori, club sportivi, associazioni e scuole sportive.
Per tanti anni era una ciclista professionista, ma finito lo studio di psicologia ha intrapreso la strada indipendente di psicologo dello sport. Nei 10 anni d'esperienza ha partecipato in tutti gli sport, ma quelli più comuni sono il calcio, salto con gli sci, tennis, judo, atletica, triathlon, ciclismo, pallacanestro e arrampicata.
Durante la sua pratica usa la terapia cognitivo-comportamentale, dimostrata dalla scienza di essere la più efficiente per il trattamento degli atleti.
Andreja, qual'è la tua funzione come psicologo dello sport?
Fornire consulenza ed educazione per gli atleti, allenatori e genitori nell'ambito della preparazione psicologica.
Si tratta di un trattamento olistico. Non solo preparazioni per la gara, ma anche il miglioramento delle caratteristiche psicologiche, come per esempio la motivazione, fiducia in se stessi, concentrazione, controllo emotivo, ritorno dopo lesioni, coordinazione con gli obblighi scolastici, miglioramento delle relazioni personali, communicazione dentro la squadra e tanto altro.
Oggi giorno molti atleti accettano lo psicologo dello sport come parte integrale della squadra.
Il lavoro dello psicologo dello sport è molto vario.
A chi serve uno psicologo dello sport?
Uno psicologo dello sport può essere utile a chiunque. Mi oppongo all'idea che solamente persone deboli e mentalmente meno forti, come ancora a volte sento, abbiano bisogno di uno psicologo. Non sono affatto d'accordo.
Ogni atleta che si confronta con ostacoli, cosa che succede in ogni cariera sportiva, potrebbe usufruire di uno psicologo dello sport.
Ti pare che lo stigma che solo persone con problemi mentali abbiano bisogno di uno psicologo sia ancora presente?
Sì, ma meno di dieci anni fa. Quando ho cominciato a lavorare nell'ambito della psicologia dello sport, era molto comune la frase: "No, a noi questo non serve, noi siamo apposto."
Mi pare che oggi giorno gli atleti molto spesso decidono di visitare uno psicologo dello sport e accettarlo come parte integrale della squadra professionale, come un fisioterapeuta o allenatore. Sono contenta che l'atteggiamento degli atleti stia cambiando. Questo dimostra che diventano più maturi.
I problemi psicologici, che derivano dal paragone con gli altri, possono apparire molto presto. A quale età gli atleti dovrebbero già rivolgersi a uno psicologo dello sport?
Sì, è vero che possono apparire molto presto.
I genitori sono gli psicologi migliori per giovani atleti.
In principio, con gli atleti più giovani di 15 anni lavoriamo in modo differente che con gli atleti adulti, dove tramite consulenza individuale cerchiamo di migliorare la preparazione psicologica al fine di migliorare i risultati.
Perché questa differenza?
Perché lo sport prima dei 15 anni non dovrebbe essere tanto competitivo. Perciò anche il supporto dello psicologo dello sport non è tanto necessario, a meno che si tratti di altri problemi che richiedano l'intervento di uno psicologo. Per esempio problemi comportamentali, a scuola, di apprendimento.
L'eccezione sono gli sport dove la specializzazione accade già prima e nei quali si richiede dall'atleta di essere più fisicamente attivo di quanto abbia senso per la sua età.
Se un atleta di 12 anni deve attendere gare internazionali, ottenere risultati e soddisfare le aspettative dei genitori, allenatori e altri, allora si tratta di una grande pressione psicologica che ovviamente un atleta così giovane non è capace di sostenere.
Un atleta in questa posizione di certo ha bisogno di supporto psicologico. Più di questo, gli serve un ambiente che capisca che poiché il suo sviluppo non è ancora a quel punto, non è capace di certe cose e gli serve molta pazienza. Dobbiamo dargli il tempo necessario per meglio comprendere il concetto del fallimento, valutare le proprie capacità e gestire le aspettative proprie e degli altri.
In ginnastica, tennis e sci la pressione comincia già molto presto.
Per questo motivo con gli atleti sotto i 15 anni non svolgiamo consulenze, ma gli insegniamo i vari principi della psicologia dello sport – come calmarsi, come visualizzare, come gestire le aspettative degli altri.
Allo stesso tempo è importante lavorare anche con i genitori. Il fatto è che per gli atleti più giovani dei 15 anni sono loro i psicologi migliori. Una volta raggiunta quest'età, però, il ruolo dello psicologo dello sport diventa molto più importante.
Hai in mente qualche sport nel quale la pressione comincia già prima?
Ginnastica, tennis, sci – in questi sport di solito la pressione è presente già molto presto.
Negli altri sport, in principio, la specializzazione accade più tardi, cioè non prima degli 12, 13 anni.
D'altro canto, nei giovani già presto cresce l'ambizione di ottenere successo. E anche i vari scout non perdono tempo.
È vero, è qualcosa che noto anche negli altri sport.
In un certo senso, dobbiamo abituarci. Questo è qualcosa che lo sport richiede ed è difficile da cambiare.
A 10 anni è difficile determinare chi diventerà un fuoriclasse.
Ricordo una volta dei genitori mi chiedevano perché i psicologi non facciamo niente a proposito. La verita è che la nostra influenza è limitata.
L'unica cosa che possiamo fare è influenzare gli atleti, genitori e allenatori a non creare un ambiente così. E collaborando con i club, le associazioni e gli atleti questa è una cosa che infatti cerchiamo di realizzare.
Anche il calcio pare uno sport nel quale i giovani cominciano a prendere la propria attività molto seriamente.
Sono d'accordo. Specialmente perché l'obiettivo intravisto dai genitori e dai giovani è molto allettante. Calcio è uno degli sport nel quale sembra possibile guadagnarsi il pane quotidiano.
Non vincere non significa che abbiamo fallito.
Ma dobbiamo tenere in mente che a 10 anni non è possibile determinare chi diventerà un atleta fuoriclasse e chi no. Questo può cambiare in una direzione o altra. Perciò bisogna controllare le aspettative. Questo vale per tutti gli sport.
Ti pare che la società oggi dia troppa importanza alla competizione?
Sì, diamo moltissimo valore all'efficienza e al successo. Se non si vince, ci fa credere che abbiamo fallito. Ma questa non è la realtà. Non dobbiamo pensare in termini di nero e bianco, anche il grigio è accettabile.
Se un giovane di 12 o 13 anni non ha ancora trovato successo, questo non significa che non lo troverà più tardi. Siamo gli adulti quelli che creiamo pressioni nell'ambiente sportivo, non i giovani.
I giovani partecipano negli sport perché gli piace, si divertono e possono socializzare. Questo dura fino a circa 12 anni. Solo dopo nascono desideri e aspettative un po' più reali.
L'accessibilità degli atleti fuoriclasse può essere una fonte di motivazione, ma anche di demotivazione.
Se chiedete a un giovane prima di 12 anni cosa desidera, ovviamente vorrebbe essere come Ronaldo o Messi, Roglič o Pogačar. Questo gli pare ottenibile. Forse perché non si rendono conto quanti sacrifici questo richieda.
Dopo diventano un po' più critici, il che torna molto utile. D'altra parte, questo è spesso la causa di un calo della fiducia in se stessi. Con tutti i cambiamenti psicologici di certo è utile il supporto di uno psicologo dello sport per prevenire potenziali problemi nel futuro.
Probabilmente i giovani sono influenzati anche dai media?
È vero. Mai nella storia gli atleti sono stati così accessibili e esposti come oggi. Ovviamente, sono loro a decidere cosa e quanto esporre al pubblico, ma in ogni caso già da giovani gli atleti possono vedere cosa fanno i loro concorrenti, idoli e atleti più anziani.
Questo può essere una fonte di motivazione, ma anche di demotivazione.
Se vogliamo cambiare il nostro comportamento, dobbiamo cambiare i pensieri.
Perché demotivazione?
Perché sulle reti sociali ovviamente pubblichiamo solo il successo e le cose belle, mentre l'altro lato degli sport resta oscurato. Un giovane atleta così assorbe informazioni incomplete della realtà. Questa è una delle trappole delle reti sociali.
Prima hai menzionato che con gli atleti più giovani di 15 anni svolgete consulenza, mentre dopo cominciate col trattamento. Qual'è la differenza tra la consulenza e il trattamento?
Nell'età più matura, che può comunque accadere già prima dei 15 anni, dipende dall'individuo, svolgiamo la terapia cognitivo-comportamentale. Si parte dal concetto che il nostro comportamento dipende dai nostri pensieri e dalle nostre emozioni. Si parla, quindi, della cosiddetta triade cognitiva.
Se vogliamo cambiare il nostro comportamento, ovvero nell'ambito dello sport l'esecuzione e la prestazione, allora dobbiamo cambiare i nostri pensieri.
Perciò la parte più importante della consulenza è dedicata a scoprire le cause delle inconsistenze, calo di forma, differenze tra allenamento e gara.
Una volta scoperte queste cause psicologiche, allora inizia il trattamento. Principalmente cerchiamo di cambiare i ragionamenti distorti e le regole rigide su come qualcosa dovrebbe essere, cosa dovremmo ottenere e cosa non dobbiamo fare. Inoltre riduciamo le aspettative, stabiliamo obiettivi reali e insegniamo varie tecniche di rilassamento, attivazione, visualizzazione, stabilimento di obiettivi, routine prima della gara, controllo dei pensieri, dialogo interno e così via.
Come atleta ricreativo è difficile non essere travolto dallo spirito competitivo.
Cioè, usiamo varie tecniche per permettere all'atleta di cambiare i propri pensieri e conseguentemente prepararsi meglio psicologicamente a realizzare in pratica le proprie capacità.
Questo vale per gli atleti che soffrono di ansia, bassa concentrazione, motivazione e simile. Se i problemi sono differenti, cosa molto comune nel mondo dello sport, il trattamento si svolge in modo differente, dipende dal problema specifico. Per esempio, i giovani hanno il problema di ansia da prestazione, ma gli atleti adulti hanno mille problemi differenti.
Comunque, la diagnostica viene sempre prima del trattamento. Simile a un dottore o un fisioterapeuta, anche i psicologi dello sport dobbiamo per prima cosa capire cosa sta succedeno per essere in grado di cambiarlo.
È assolutamente sbagliato già sul primo appuntamento suggerire tecniche di rilassamento, per esempio. Prima dobbiamo svolgere la diagnostica e solo poi, in base ai risultati pertinenti all'atleta specifico, cercare di impostare miglioramenti.
Forse per gli atleti ricreativi a volte la pressione è pure maggiore. I professionisti sanno che si tratta del loro lavoro, perciò sono consapevoli quando essere attivi e quando riposare. Un atleta ricreativo forse non ha limiti chiari e mette troppa pressione su se stesso. Gli sarebbe utile avere l'aiuto di uno psicologo dello sport?
Ben detto. Sono loro a mettersi sotto pressione. Questo è uno dei problemi principali dello sport ricreativo.
In principio, facciamo lo sport ricreativo perché ci piace. È il nostro hobby. Ma sappiamo bene com'è. È difficile limitarsi agli obiettivi ricreativi. Presto vogliamo ottenere risultati e compararsi con gli altri atleti. Per esempio su Strava o altrove. È difficile non essere travolti dallo spirito competitivo.
Un atleta ricreativo non può lavorare per otto ore, prendersi cura della famiglia e poi allenarsi come un professionista.
Questo conduce alla pressione che gli atleti ricreativi creano da soli. Il problema è che questi obiettivi non sono adatti a loro. Se vogliono alleviare la pressione, devono cambiare i loro obiettivi. Gli obiettivi devono essere legati al progresso personale, soddisfazione, passare il tempo libero in modo sano. Non devono dare tanta importanza ai risultati.
L'altro problema l'hai menzionato da solo. Cioè, il tempo a loro disposizione. Un atleta ricreativo non può lavorare per otto ore, prendersi cura della famiglia e poi allenarsi come un atleta professionista, ma pur sempre gli atleti ricreativi spesso desiderano proprio questo, una cosa impossibile. Non si può fare tutto in 24 ore senza sacrificare la propria salute, sia fisica che mentale.
Perciò il trattamento degli atleti ricreativi in primo grado cerca di cambiare le loro aspettative e scoprire se esistono problemi altrove – nel senso che forse usano lo sport per risolvere qualche altro problema. Il nostro compito è aiutarli a coordinare gli obblighi, impostare obiettivi reali e accettare i loro fallimenti, che poi non sono davvero fallimenti, come parte naturale dello sport ricreativo.
Calmando un po' le loro aspettative, gli atleti ricreativi spesso migliorano i propri risultati.
Forse ti sembra chiaro che tanti atleti ricreativi non accetano l'aiuto di uno psicologo dello sport proprio perché non gli diamo quello che desiderano. Loro vogliono allenarsi, competere e lavorare con uno psicologo dello sport come gli atleti professionisti, ma questo non è sempre la cosa migliore da fare.
Come psicologo dello sport, raccomanderesti agli atleti ricreativi di non essere così accaniti e allenarsi di meno? Oppure è possibile aiutarli ad allenarsi molto, ma pur sempre trovare un limite sano?
È difficile generalizzare. Gli atleti si differenziano tra di loro. Dobbiamo trovare un equilibrio che sia sano per l'atleta, la sua famiglia e le persone che lo circondano.
Le sfide psicologiche causate dallo sport ci permettono di crescere.
Ma questo non significa che tutti gli atleti ricreativi stiano esagerando. Non voglio essere capita così. Ma se davvero esagerano e non sono reali nelle loro aspettative, allora è meglio calmarli un po'. E la cosa interessante è che proprio questo gli aiuta a migliorare i loro risultati.
Questo probabilmente è l'obiettivo finale dello psicologo dello sport, permettere agli atleti di ottenere risultati migliori?
Sì. Questo è l'obiettivo del trattamento sportivo-psicologico. Permettere all'atleta di migliorare i risultati migliorando l'esecuzione e la propria preparazione psicologica.
L'obiettivo principale dello psicologo, però, rimane l'effetto positivo sulla vita e il benessere generale dell'atleta. Il risultato atletico non è mai più importante di questo. Qui non se ne parla.
Per diventare un fuoriclasse bisogna forzare i propri limiti, ma questo probabilmente si oppone alla salute psicologica?
È vero. Spesso si dice che lo sport al livello più alto non è sano per il corpo, ma l'obiettivo è trovare l'equilibrio che ci permetta di agire in modo sano sia per il corpo che la mente.
È importante trovare l'equilibrio tra la salute psicologica e l'otimizzazione della prestazione sportiva.
Ma è normale che quando ci confrontiamo con fallimenti sportivi, allora aumentano anche le sfide psicologiche. Questo non succede alle persone che non praticano lo sport. Proprio per questa ragione ha senso praticare lo sport, per ottenere queste esperienze che ci permettono di crescere.
Come psicologo e psicologo dello sport, come coordini l'obiettivo di sostenere la salute psicologica del cliente, permettendogli allo stesso tempo di ottimizzare la propria prestazione sportiva?
Credo che sia una cosa fondamentale per tutti gli psicologi dello sport cercare questo equilibrio. Non ho mai un dilemma su come agire. Credo di aver sempre intuitivamente scelto l'approccio giusto. Raramente c'è stato un conflitto su cosa sia sano e cosa no.
Quindi è possibile unire questi due aspetti?
Sì, assolutamente.
Nel rapporto con l'atleta dobbiamo rimanere neutrali. Noi psicologi notiamo più velocemente quando un atleta esagera e quando non è abbastanza attivo. Abbiamo un punto di vista diverso dall'atleta, il che ci permette di dargli consigli utili.
Ha senso anche collaborare con gli allenatori, perché possono aiutarci molto in riguardo alla diagnostica e gestione dell'atleta, mentre noi possiamo raccomandargli come lavorare con gli atleti.
Si tratta di un caso di doppi standard.
In ogni modo, è assolutamente necessario rispettare la regola del silenzio. Le conversazioni con l'atleta rimangono un segreto tra l'atleta e lo psicologo. Se lo psicologo divulgasse i segreti dell'atleta, l'atleta non ritornerebbe più.
Cosa possiame fare da soli senza l'aiuto di uno psicologo?
La prima cosa sono gli obiettivi. Dobbiamo essere reali nelle nostre aspettative. Non dobbiamo concentrarci solo sui risultati, ma principalemente sull'esecuzione. Come svolgere qualcosa, come competere, cosa fare. Invece di cercare di vincere a ogni costo.
La seconda cosa è l'interpretazione degli errori o fallimenti. Dobbiamo rimanere calmi e ragionevoli. Come se daremmo consigli ad un'altra persona. Sempre traspare che per gli altri gli atleti hanno tante parole comfortevoli. Nel senso: "Non ti è andata bene, non c'è niente di male, ti sei allenato bene, andrà meglio la prossima volta." Ma quando pensano a se stessi, l'argomento cambia: "Sei incapace, hai fallito." Si tratta di un caso di doppi standard. Perciò dobbiamo analizzare un caso di fallimento in modo reale, obiettivo e calmo. Criticarsi e sabotarsi non migliora le cose, semmai rende tutto più difficile.
La terza cosa è trovare l'equilibrio tra gli obblighi e le attività piacevoli per non cadere nel tranello di pensare che sfaticare necessariamente conduca al miglioramento dei risultati. Questo non è sempre vero. Bisogna trovare un modo efficiente per svolgere le cose.
Gli psicologi stiamo attenti alle cose importanti per l'atleta, come l'alimentazione, il recupero e gli allenamenti. Allo stesso tempo serve l'equilibrio. Trovare qualche hobby, andare in natura, fare una camminata, socializzare, non basare tutto su un solo sport.
Qualche pensiero finale?
Quelli che già da tempo pensano di cercare l'aiuto di uno psicologo dello sport, non esitare. Credo che possiamo risolvere la maggioranza dei problemi che tormentano gli atleti forse da anni. Non c'è paura che ognuno non troverebbe uno psicologo adatto.
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